Olamzé 11 gennaio 2006

Oggi, a causa dei miei maledetti filmati, ho sperimentato la paura. Ho temuto che mi volessero fare il voodoo. A Olamzé, quasi alla fine del nostro lungo e bellissimo viaggio in Camerun.

Abbiamo cambiato i nostri programmi. Dovevamo andare a visitare un parco naturale tra Ambam e Kribi, per vedere la foresta, ma Matteo ci ha sedotti con la sua proposta: a vedere la foresta ci porta lui.

Alle 10.30 ci mettiamo in cammino e poco prima di Kioussì, l’ultimo di villaggio prima della frontiera, prendiamo una sterrata a sinistra della strada principale. Siamo nella foresta.

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Tutto intorno è verdissimo, lussureggiante. Ci sono alberi di tutte le fogge e dimensioni.
La sterrata è un lunghissimo tappeto rosso che si fa strada fra gli alberi. Ogni tanto la foresta si apre ad una radura che ospita piccoli villaggi abitati da pochi adulti e molti bambini.

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Lungo la strada ce ne sono molti di questi micro villaggi, proprio dentro la foresta. Facciamo qualche tappa per consegnare alcuni carrettini per il trasporto delle merci: legna, plantain, canna da zucchero.
Le case sono fatte di legno e terra gialla. All’interno si dorme e si mangia per terra e la sensazione è quella di un luogo pulito, molto più pulito delle case di città.

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Matteo ci porta a visitare un paese che nemmeno lui ha mai visitato: il paese si chiama Olamzé. E qui a causa mia succederà un piccolo pasticcio.

Mentre corriamo verso il paese in macchina io filmo il paesaggio, che corre via veloce. Il villaggio sembra bello. Si apre su una vasta radura. La foresta ora rimane in lontananza.
Filmo la gente che cammina per la strada, filmo il panorama, filmo la natura intorno. Qualcuno vede o intuisce quel che sto facendo e, appena scesi dall’auto, ci piomba addosso pressoché tutto il paese. Un poliziotto crede di esser stato filmato.

Ne nasce una questione di stato. Il poliziotto vuol vedere il film e io intimorita, glielo mostro. Anche altri protestano e vogliono vederlo. Mostro il filmato anche a loro. Non si capisce granché dal filmato, cose e persone passano via veloci e indistinte. Non capisco come mai queste persone continuino ancora a lamentarsi dato che non si vede chiaramente nessuno nel mio filmato. Lo capirò al commissariato, dove il poliziotto ci costringe ad andare.

Io sono mortificata per l’accaduto, ma spieghiamo che a Yaoundé il Ministero del Turismo del Camerun ci aveva detto che, a meno che non fossimo giornalisti, avremmo potuto filmare e fotografare senza alcun bisogno di autorizzazione.

Il poliziotto insiste e comincio a capire che vuole qualcosa, perché non si accontenta che gli prometta di cancellare quel frammento di filmato.
Il commissario ci chiede i documenti, scrive a matita alcuni dati su un foglio di carta mentre noi, il più educatamente possibile, ci presentiamo. Lui non sembra preoccupato, anzi. Ci accoglie con serenità. Il suo volto ispira simpatia ed allegria e questo mi rincuora.
Ma il poliziotto insiste, sembra voler giustizia a tutti i costi.
In seguito saprò da David che il poliziotto era stato messo in prigione per 8 giorni poiché, durante una manifestazione degli oppositori al partito di Biya, mentre faceva il suo lavoro, era stato fotografato. L’immagine era stata poi pubblicata da un giornale e la foto interpretata come una sua partecipazione attiva al fianco degli oppositori contro Biya.

Il problema è che il poliziotto da noi non vuol sentir ragione. Gli spiegano in tutti i modi che non c’è alcun pericolo per lui nelle immagini che avevo girato, ma niente.

Nel frattempo, per fortuna, l’incidente si trasforma in un’occasione per conoscere un bel po’ di gente: il commissario, il sotto prefetto Vincent Paul, come Vincenzo di Paola, dice, e molti altri.

La tensione lentamente diminuisce. Anche Matteo ne trarrà qualche vantaggio. Ora lo conoscono. E forse potrà estendere gli aiuti della Comunità Europea anche a Olamzé.

Mentre tutti insieme andiamo a bere qualcosa, mi capita di scendere dall’auto per ultima e il poliziotto, che si trovava in macchina con noi per il breve tratto dal commissariato al bar, mi blocca e mi costringe a restare da sola con lui e così ha l’occasione di fare una cosa che mi mette i brividi: mi minaccia.
Con tono molto serio e fermo mi dice: “o mi paghi o vado dal mio chef e te la faccio pagare io, al modo nostro”. Lo dice in francese, ma lo capisco benissimo.
Intimidita, riesco ad uscire dall’auto e ad allontanarmi. Non smetto di pensare alle parole di padre Oliviero, quando, qualche giorno prima, ci raccontò delle vendette di cui sono capaci certi clan camerunesi, come quella di farti trovare un serpente velenoso in casa, o di spararti quando meno te lo aspetti, oppure di lanciarti una specie di voodoo.

Ci resto male, sono spaventata e mortificata per tutta questa assurda storia capitata per una mia leggerezza. Raggiungo velocemente Giovanni, che nel frattempo con David, Matteo, il commissario e Vincent Paul se la stanno ridendo tra una coca cola e un pamplemousse. Gliene parlo. Lui, Matteo e David mi dicono di stare tranquilla, che non accadrà niente.
Io però non riesco a non pensarci.

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Salutiamo tutti, mentre ancora il poliziotto si lamenta. La sua minaccia mi rovinerà la giornata. Torniamo sui nostri passi lungo la strada nella foresta.
Matteo, forse percependo il mio disagio, dice a me e a Giovanni di salire dietro il suo camioncino per goderci meglio il panorama. Ci divertiamo un mondo.

Accompagniamo Sunde a casa a Kioussì e poi a casa anche noi. Lungo la strada i nostri compagni di viaggio trovano da acquistare della selvaggina: un piccolo cerbiatto appena cacciato. Sarà la nostra cena.

Author Silvia Pittarello

Viaggiare è una palestra dove allenarsi alla tolleranza, all'umiltà, alla gestione del tempo. Viaggio più che posso e quando mi fermo scrivo, per raccontare viaggi, storie di impresa, di cultura e di scienza e organizzare e veicolare contenuti per interfacce web e mobile, come fa un bravo content specialist col pallino per il copywriting e lo storytelling.

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